martedì 28 aprile 2015

Avere il coraggio di dire ai nostri figli che certe cose costano fatica

Lo scorso 23 aprile è stata celebrata la Giornata mondiale del libro. Tra le tante iniziative c’era #ioleggoperché che aveva l’obiettivo di far avvicinare alla lettura il maggior numero di persone regalando copie di libri più o meno famosi.
Mi sono fermato a riflettere sul fatto che bisogna essere onesti nel dire che leggere è faticoso. Chi legge sa quanto sia bello farlo, per tante ragioni. Può essere meraviglioso ma questo non significa che non richieda impegno.
Lo dico perché in un mondo che ormai si muove a velocità sempre maggiori, nel quale le notizie diventano vecchie dopo pochi minuti, con applicazioni che ti fanno avere “tutto e subito” può sembrare che parlare di libri sia quasi anacronistico. Come dei moderni Don Chisciotte che lottano contro mulini a giga, ops a vento.
Dobbiamo essere sinceri con i nostri figli facendo capire loro che non tutto potrà essere semplice e veloce ma, che certi risultati richiedono tempo e fatica. Sembra che oggi "fatica" sia quasi una parolaccia, in un momento dove tutti cercano di ammiccare ai bambini e ai ragazzi cercando di proporre soluzioni gradite quasi per ottenere il maggior audience possibile. E’ importante motivare e coinvolgere ma questo non significa indicare sempre la via più facile in quanto potrebbe non consentire di ottenere l’obiettivo che si vuole raggiungere.
Così facendo gli adulti dimostrerebbero ancora una volta di abdicare al loro ruolo, per apatia o per un senso di sfiducia.  
Bisogna avere il coraggio di dire ai nostri figli che per certe cose dovranno faticare ma che vale la pena farlo. Ma dobbiamo essere noi i primi a esserne convinti.
Come non pensare alla tanto bistrattata scuola, alla necessità di stare a casa a fare i compiti anche quanto i bambini, ma in molti casi gli stessi genitori, vorrebbero uscire. Alla necessità di studiare a memoria, anche se con pochi click si ha la sensazione di conoscere qualsiasi argomento, o di leggere un libro, anche se ne è stato fatto un bellissimo film con un protagonista da Oscar.

Se non riusciremo a far capire lo scopo di quell’impegno avremo fallito il nostro ruolo educativo e, usando un gioco di parole, Facebook vincerà sempre sui book.

lunedì 20 aprile 2015

“I bambini sanno” e “I bambini pensano grande” ma non sono dei piccoli guru

C’è molta attenzione nei confronti del mondo dei bambini, lo testimoniamo i tanti libri e blog. Recentemente il docufilm “I bambini sanno” e il libro “I bambini pensano grande” hanno acceso un riflettore e, soprattutto, un microfono sul mondo dei bambini dando loro visibilità e voce.
C’è il rischio, però, che si guardi ai bambini come a degli idiot savant, che noi consideriamo non al nostro pari ma che, per chissà quali ragioni, possono darci risposte illuminanti. O che si sfoci nel mito del “buon selvaggio”, in questo caso del “buon bambino”, secondo il quale i bambini sono intrinsecamente buoni non essendo ancora corrotti dalla società e dal mondo degli adulti.
Credo che sia emblematica la frase detta da uno dei protagonisti e inserita nella locandina del film: “Spero che lo vedano i nostri genitori, così ci capiranno meglio” che denuncia il fatto che i genitori ascoltano poco i figli. Chi legge il libro o vede il film si rende conto di quanto hanno da dire i bambini, senza che questo debba necessariamente tradursi in perle di saggezza e senza farne dei giovanissimi guru. E’ un messaggio indirizzato soprattutto a chi ha a che fare con loro quotidianamente: genitori sempre di corsa e troppo impegnati a dare un futuro ai propri figli, o insegnanti pressati da programmi da rispettare, per avere anche il tempo di ascoltarli.
Penso che l’obiettivo principale di queste opere, o almeno quello che gli attribuisco io, sia di sensibilizzare gli adulti a un maggior rispetto e ascolto nei confronti del mondo dei bambini qualsiasi cosa abbiano da dirci e senza aspettarci necessariamente spiegazioni sul senso della vita. Un ascolto che non sia passivo ma che si traduca in un dialogo tra generazioni perché, diversamente dai bambini, sono gli adulti ad avere gli strumenti per costruire e modificare la società in cui vivono.
Sarebbe interessante sentire cosa avranno da dire tra dieci anni gli stessi bambini intervistati oggi da Veltroni.

martedì 14 aprile 2015

Di bulli e scherzi pesanti

Ultimamente la cronoca racconta sempre più spesso di episodi di bullismo dentro e fuori la scuola. Gesti violenti, ricordando che la violenza non è solo quella fisica, amplificati dalle potenzialità della tecnologia moderna ormai a disposizione di tutti e a tutte le età.
Altrettanto spesso, si leggono le reazioni dei genitori dei cosiddetti bulli che tentano di giustificare l'accaduto riconducendo certe azioni a semplici scherzi, ragazzate o bravate. Basterebbe avere a disposizione, e soprattutto usare, un vocabolario per capire che tali termini non sono assolutamente sinonimi.

Personalmente credo che sia veramente molto semplice per tutti capire il discrimine tra uno scherzo e un atto di violenza. In uno scherzo si ride insieme, non contro qualcuno. Basterebbe osservare la reazione di chi ci sta di fronte. E' qui, forse, il punto veramente difficile: riuscire a guardare gli altri.

Qualche sera fa, mentre improvvisava un balletto sul parquet, mia figlia ha fatto uno scivolone. Io le ero di fronte e le ho sorriso per rassicurarla che non era successo niente di grave.
Lei ha inteso male, ha corrugato la fronte e mi ha rimproverato.
Perché ridi?”
Non stavo ridendo, ti stavo sorridendo per farti capire che non è successo niente.”
... perché se ridi, io ci rimango male.

Eccola. La semplicissima regola spiegata da una bambina di 4 anni: se ci rimango male non c'è niente da ridere.