Una
parte della festa finale del ciclo della scuola dell'infanzia si è
svolta nel giardino dove mia figlia ha frequentato il nido. Mi è
capitato di fermarmi vicino alla panchina dalla quale, quasi cinque
anni fa, la guardavo una delle mattine del suo inserimento. Ad essere
sinceri, era un po' l'inserimento di entrambi.
Ricordo
il bambino addormentato sull'altalena nonostante alcuni compagni gli
girassero intorno toccandogli le guance. Ricordo il bambino che mi si
avvicinò guardandomi con un enorme ciuccio in bocca. Ricordo che
osservavo quei giochi in giardino cercando di individuare eventuali
pericoli. Ricordo che lanciavo occhiate severe ai bambini grandi, mia
figlia era una dei più piccoli, che sfrecciavano nella macchinine
lungo il vialetto.
Pensavo
al fatto che le panchine sono luoghi strani. Per gran parte del tempo
senza nessuno seduto sopra.
Un luogo dell'attesa, per chi sta
aspettando qualcuno. E rimarrà seduto giusto il tempo dell'arrivo
dell'altro.
Un
luogo del ricordo e della malinconia, per chi non ha tanto da fare.
Per gli anziani seduti per passare il tempo, chiacchierando e ricordando il tempo
passato.
Ma
anche un luogo per parlare del futuro. Come per i ragazzi seduti
sulle panchine a fantasticare ed immaginare come vorrebbero fossero
le loro vite.
Davvero
strani luoghi le panchine.
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