Da un lato leggo i dati 2016 dell’Ispettorato del lavoro che mostrano come,
in Italia, maternità e lavoro siano ancora difficilmente conciliabili, dall’altro
sento parlare di “quote rosa” e vedo come si stia cercando di metterle in
pratica. Mi chiedo se possano essere davvero uno strumento utile per cercare di
porre un freno a questa fuoriuscita dal mondo del lavoro delle neo mamme.
Le “quote rosa” partono dal presupposto che, lasciato da solo, il mondo
del lavoro tende ad escludere le donne, in particolare da posti di responsabilità,
in quanto caratterizzate da peculiarità che, da sempre in Italia, hanno
riguardato il mondo femminile in contrapposizione di quello maschile. Prima
tra tutte, la ricerca di una certa flessibilità dell’orario di lavoro che
consenta la gestione e la cura della famiglia e dei figli.
Se c’è, come vogliono indicare le “quote
rose”, un’impostazione di lavoro “al femminile”, diverso da quello “al
maschile”, da valorizzare e da diffondere, bisognerebbe, però, che
effettivamente le “quote rosa” favorissero davvero l’avanzamento di questa
impostazione “al femminile”. Il rischio che vedo è che, nel concreto, con le “quote
rosa” si cambi solo il genere interessato, donne vs uomini, ma non si introduca
una vera nuova modalità di lavoro e che, al di là degli uomini o delle donne
al comando, rimanga sempre in piedi un modo di lavorare considerato “al
maschile”, fatto di mancanza di flessbilità, di disponibilità assoluta sul
posto di lavoro al di là di giorni ed orari.
Non vorrei che, una volta nella
stanza dei bottoni in virtù delle “quote rosa”, non si avvii concretamente un
processo virtuoso a scendere lungo tutto l’organigramma delle aziende.
E che le “quote rosa” rimangano un tema da piani alti, da dirigenti, da
Consigli di Amminisitrazione o da squadra di Governo ma che abbiano veramente un
impatto praticamente nullo nella vita di tutti i giorni delle madri lavoratrici.
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