venerdì 23 dicembre 2016

Si passa la prima parte della vita a tentare di cambiare il mondo e la seconda parte a cercare di fare in modo che il mondo non cambi noi.

C’è chi dice che si passi la prima parte della vita a cercare di cambiare il mondo e la seconda parte a tentare di fare in modo che il mondo non cambi noi.
Ricordo chiaramente la mia “prima parte”. Dai tempi delle scuole elementari con la prima iniziativa di raccolta fondi per l’Unicef, la tessera del WWF e la conoscenza con un’Associazione dedicata ai “portatori di handicap”, passando agli approfondimenti su attualità e cultura dei tempi di trasmissioni tv, all'epoca unica finestra sul mondo, come Mixer di Gianni Minoli, ad un attenzione ai problemi di Paesi lontani attraverso Associazioni, Riviste e pubblicazioni cosiddette “terzomondiste”.

Certe sensibilità ed interessi derivano un po’ dalla storia personale di ognuno. Difficile, se non impossibile, cercare di riprodurli a tavolino. Sono convinto, comunque, che una certa conoscenza sia necessaria. Ricordo alcuni miei compagni di classe che, al di là dei loro risultati scolastici, erano completamente estranei a quello che succedeva in Italia e nel Mondo.   
Cerco, quindi, di dare spiegazioni a mia figlia su quello che succede al di fuori della sua vita, che molto spesso finisce con la porta di casa o con quella dell’aula della sua classe. Partendo da quello che conosce e che può interpretare. Perché, neanche troppo lontano, ci sono dei bambini che non vivono una vita come la sua. Da tanti punti di vista.
In questo gioca un ruolo molto importante la scuola in termini di apertura e comprensione del mondo. Perché permette di toccare con mano, al di là di tanti discorsi, situazioni diverse dalla propria. Come il bambino che ha bisogno dell’insegnante di sostegno, il bambino con un colore della pelle diverso perché è stato adottato o il bambino che parla poco l’italiano perché viene da un altro Paese.
A casa, parlando, emergono tante richieste di spiegazioni, di possibili paure più o meno inconsce. Ci deve essere il tempo e la voglia di ascoltare i nostri figli, domande dirette o richieste tra le righe, per cercare di farli ragionare, dando loro le nostre spiegazioni della realtà. Non sono chiacchierate che si fanno una volta per sempre perché certi temi vanno elaborati, successivamente affiorano dubbi e nuove domande. Ci sono, poi, diversi gradi di approfondimento e comprensione legati all'età. Alcune volte i bambini affrontano problemi gravi con estrema leggerezza per poi dedicare la massima serietà a quanto di più leggero ci sia. Così può capitare che per alcuni giorni mia figlia torni a parlare della guerra, riprendendo un discorso di tempo prima, capendone la gravità per poi liquidare frettolosamente e superficialmente chi non ha il cibo dicendo che gli darà le verdure perché non vuole mangiarle lei. Si sa, sono bambini. 
Personalmente credo molto nell'idea dei semi piantati. Vale sempre la pena di farlo, magari non tutti, ma sicuramente qualcuno germoglierà. Perché non possiamo pensare di lasciare i nostri figli al di fuori del mondo perché il mondo, prima o poi, verrà a bussare alla loro porta.

C’è chi dice che si passi la prima parte della vita a cercare di cambiare il mondo e la seconda parte a tentare di fare in modo che il mondo non cambi noi.
Io penso che, in realtà, chi ha pensato almeno una volta di cambiare il mondo non abbandonerà mai quella speranza e, in fondo in fondo, per quanto piccolo sia il suo contributo tenterà sempre di farlo.       

mercoledì 23 novembre 2016

Adesso sono un po’ più Pimpa e un po’ meno Armando.

Ammetto che con la Pimpa non era scattata una particolare simpatia. Né nella sua versione animata negli episodi in tv né attraverso la lettura i libri che avevo comprato a mia figlia. Mi sembravano storie un po’ strampalate. 
 
Da quando mia figlia sta imparando a leggere ho scoperto che dei tanti libri per bambini che ci capitano tra le mani, quelli che acquistiamo o quelli che prendiamo in prestito in biblioteca, pochissimi sono scritti utilizzando lo stampatello maiuscolo, la prima tipologia di carattere usata a scuola. E la Pimpa è uno dei pochi.
Così, partendo dai libri che avevamo già a casa, abbiamo ampliato la collezione della cagnolina a pois rossi.

Devo dire la verità, questo “secondo incontro” con la Pimpa è stato molto più coinvolgente. Probabilmente perché abbiamo approfondito la storia dei diversi personaggi o perché conoscendola, pagina dopo pagina, mi sono un po’ affezionato. O forse perché all’inizio ero un po’ troppo come l’Armando, e come a lui le storie della Pimpa mi sembravano strane, mentre adesso sono anche io un po’ Pimpa, aperto verso qualsiasi tipo di avventura fantastica.  
Di fatto, la Pimpa si è conquistata un posto particolare nei miei ricordi, e direi nel mio cuore, perché avrà accompagnato mia figlia, mano nella zampa, durante la sua scoperta della lettura.       

venerdì 18 novembre 2016

Dal dito medio all'Uomo Ragno il passo è breve

Di solito la scena è questa: mia figlia è seduta in bagno ed io in piedi di fronte al lavandino che mi lavo i denti o mi sistemo la barba. Non ho ancora capito il perché ma questa situazione è quella che in assoluto favorisce le confidenze ed i racconti sulle sue giornate. Forse perché, pur essendo vicino, mi vede impegnato in altro e vuole richiamare la mia attenzione. O forse perché, per lei, stare in bagno è uno dei suoi momenti di maggiore tranquillità. Forse perché è sera, è stanca e parlare la rilassa. O forse perché, di sera, rimette in fila i principali avvenimenti della giornata. Non saprei.

Ieri sera, proprio mentre eravamo in bagno, d’improvviso, come al suo solito, mia figlia alza il suo dito medio verso di me e mi chiede “Cosa vuol dire questo?”. Io prendo tempo indicando che ho la bocca piena di dentifricio.
Lei continua: “Una bambina mi ha detto che è una cosa brutta.”
“Eh sì”, dico io.
“Sì, ma che vuol dire?” incalza lei.
“Vuol dire vai al quel paese.”
Lei mi guarda perplessa, ovviamente non ha senso averle detto di “quel paese”, che non sa cosa sia.
“E’ quando qualcuno ti fa arrabbiare così tanto che gli dici di andare via.” rispondo senza addentrarmi nel dettaglio di quel “via”. “E’ un gesto. Come quando metti pollice, indice e mignolo per dire che Ti voglio bene”.
“No, anche quello è un gesto brutto!” ribatte lei.
“No, questo no. E glielo mostro.”
Lei lo rifà con pollice, indice e mignolo ma gira la mano con il palmo in alto. “Così lo fa l’Uomo Ragno. E’ brutto.”
“L’uomo Ragno lo fa per far uscire la ragnatela.” cerco di spiegarle.
“Vedi, se lo fa l’Uomo Ragno è brutto.”
“Comunque l’Uomo Ragno non è brutto, è un supereroe, cerca di aiutare le persone.”
“Ma da dove gli esce la ragnatela?”

Bei tempi quando il bagno era fuori, in un campo, a qualche metro dalla casa. Immagino che, specialmente d’inverno, non ci si perdesse in chiacchiere.

mercoledì 2 novembre 2016

“Ho pianto nella mia testa”

Ho accompagnato mia figlia a fare il vaccino previsto per i sei anni. Qualche giorno prima le avevo anticipato che sarebbe stata un’iniezione sul braccio. La sua reazione è stata normale dal “Non voglio farlo”, “Non voglio venire” a “Quando sono lì scappo”. A nessuno fa piacere farsi fare una puntura. Ci sono adulti che tremano alla sola idea di farsi prelevare il sangue per un controllo.
Dopo tutte le mie spiegazioni e rassicurazioni, io avevo fatto un vaccino lo scorso anno, siamo arrivati al compromesso che lei avrebbe potuto portare uno dei suoi animaletti, ma uno dei più piccoli, e che io le avrei fatto “le facce buffe” per farla distrarre e sorridere. Inoltre, alcune delle sue amichette che avevano già affrontato il vaccino le avevano detto che se, non avesse pianto, le avrebbero dato un regalino. Così è stato e, prima di uscire, l’infermiera le ha consegnato un “diploma di coraggio”, accolto con pochissimo entusiasmo perché la parola "regalino" le aveva fatto pensare a chissà cosa.  
Mentre aspettavamo di uscire, cercando di valorizzare il suo coraggio, le ho detto: “Vedi che sei stata brava. Non hai pianto, ti hanno dato anche l’attestato di coraggio”.
Con il viso un po’ imbronciato, e con la mano sul braccio dolorante, mi ha risposto “Ho pianto nella mia testa.”
Ho ripensato a quella frase perché molte volte, anche se in buona fede, rischiamo di dare ai nostri figli messaggi sbagliati. Come quello sulla paura e sul coraggio, perché in realtà il coraggio non è il contrario della paura. Se proprio dovessi pensare al contrario della paura, direi incoscienza.   
Ho imparato che il coraggio non è l’assenza di paura, ma il trionfo su di essa. L’uomo coraggioso non è colui che non si sente impaurito, ma colui che vince la paura.” (Nelson Mandela). 

lunedì 3 ottobre 2016

Il saggio non sempre è saggio

Ogni tanto capita, almeno a me, di servirsi chiedere “Perché lo fai?”.
Ad esempio “Perché scrivi un blog?” che implicitamente intende cercare una spiegazione del fatto che stai facendo una cosa senza che nessuno ti paghi. Oppure “Perché non provi una maratona?” Questa è più esplicita e di solito è legata al fatto che uno va a correre per diversi chilometri. La risposta è semplice “Perché mi diverto”, “Perché mi rilassa” o “Perché mi piace”.
Sembra che non siamo più capaci di fare qualcosa senza un obiettivo concreto e che, soprattutto, senza che possa essere visibile agli occhi degli altri.

Lo stesso atteggiamento viene trasposto pari pari nei confronti delle attività da far svolgere ai nostri figli.
Così accade che, per alcuni corsi, anche per bambini di cinque o sei anni già dalle prime lezioni di ottobre si imposti il saggio del periodo natalizio e che da gennaio si lavori per il saggio finale di giugno. Addirittura con la preoccupazione di perdere le lezioni per una settimana di malattia perché gli altri imparano esercizi nuovi e “si rimane indietro”. Il tutto con estenuanti confronti di colore per trovare la tonalità della calza che si intoni meglio con quella del body. Che neanche Miranda Priestly de “Il diavolo veste Prada”.  
Per altri corsi, invece, si pianificano già tornei domenicali con trasferte anche a molti chilometri di distanza. Diventa veramente “ogni maledetta domenica” per tutti, genitori e figli, che dopo una settimana di scuola e lavoro devono svegliarsi all’alba per fare una partitella che potrebbero tranquillamente fare nel parco vicino a casa, però senza l’ufficialità di una classifica.      

Un po’ fuori dalle logiche dei corsi per bambini chiedevo timidamente a chi ne aveva più esperienza di me, vista la varietà delle attività proposte, se ne esistesse almeno una che avesse quella che, secondo me, è la dovuta leggerezza di un corso per bambini. Sembra di no. Alla fine emerge che sono i genitori che chiedono una certa disciplina, che vogliono vedere qualche tipo di risultato e che, nonostante quanto detto nei corridoi, vogliono avere una o più occasioni di uscire di casa armati di telecamera e smartphone per immortalare i propri figli in partite o saggi.
    
Quest’anno siamo riusciti a trovare un corso che di fronte a domande come “Fanno un saggio a fine anno?” “Ma cosa imparano di preciso?” prevede una sola risposta “Fanno movimento divertendosi”.
Per me, il risultato più importante.

mercoledì 28 settembre 2016

Lo zen e l’arte di appuntare le matite

L’inizio della scuola elementare ha portato delle novità nel consueto svolgersi della giornata. Ad esempio, svegliarsi tutti i giorni alla stessa ora o preparare a casa la colazione di metà mattina.
Una nuova attività da fare è di controllare l’astuccio per vedere se ci sono delle matite colorate da appuntare. Di solito la sera, sul divano, prendiamo l’astuccio, il temperamatite e mia figlia verifica le matite che devono essere appuntate.
Tra l’altro, così affiancate nell’astuccio dimostrano la frequenza di utilizzo dei diversi colori. Come in un grafico al contrario, quelle più lunghe corrispondono ai colori poco, o per niente usati, mentre quelle più corte sono dei colori che hanno maggiore successo. Al momento i più utilizzati sono il celeste ed il verde, ovvero il cielo ed il prato.

Fare la punta ad una matita può sembrare semplice ma, vi assicuro, che stare accanto ad un bambino impegnato in questo compito vi mostrerà diverse difficoltà:
  • se si gira la matita senza fare la giusta forza non si appunta,
  • se si gira con troppa forza la punta può rompersi. E se rimane incastrata dentro il temperamatite va tolta, altrimenti non si riesce a continuare ad appuntare.
  • se si estrae la matita troppo velocemente la punta può rompersi.
  • può succedere che si appunti non solo la mina colorata ma anche il legno intorno con il risultato di avere una matita che può colorare solo tenendola inclinata da un lato.
  • quella bella punta perfetta è solo delle matite nuove, non è possibile riuscire a replicarla con un normale temperamatite.
Una volta riusciti ad ottenere qualcosa che ricordi la punta di una matita o che, comunque, permetta almeno di colorare c’è da svuotare il serbatoio del temperamatite. La scuola richiede rigorosamente un “temperamatite con serbatoio” per evitare assembramenti intorno al cestino e, soprattutto, per non avere a fine giornata la classe sporca.
Le prime volte svuotare il serbatoio è come aprire quei botti di Capodanno che sparano stelle filanti. Ma, vi assicuro, che non avrete voglia di improvvisare un trenino cantando “pe pe pepepepe”.
Imparato il modo giusto per aprirlo, è il momento di capire a quale altezza farlo. Deve essere all’imboccatura del cestino. Non dall’alto altrimenti ci sarà un “effetto nevicata” ed i residui finiranno tutti per terra, tutti intorno al cestino, nessuno dentro.

L’unica vera raccomandazione è di lasciarli fare perché impareranno, prima o poi.

lunedì 19 settembre 2016

Guardando le paralimpiadi con mia figlia



Chi riprende a fare sport dopo un po’ di tempo sa che deve mettere in conto qualche giorno di doloretti vari tra gambe, braccia e addominali. Questo perché i muscoli andrebbero tenuti  allenati per affrontare sforzi fisici.
Mi convinco sempre di più che, visto che anche il cuore è un muscolo, sia necessario tenerlo allenato ma intendendo il cuore come il luogo delle emozioni.
Anche le emozioni andrebbero tenute allenate, sia le nostre che quelle dei nostri figli. Per questo credo che in famiglia sia bene sorridere, ridere, scherzare, arrabbiarsi, piangere, mostrarsi, se lo si è, tristi o felici. C’è anche un’educazione, non formale come in altri casi ma implicita in come ci comportiamo, alle emozioni ed ai sentimenti.

Questa estate ho visto spesso le Olimpiadi di Rio insieme a mia figlia. Lei era molto coinvolta, mi faceva tante domande ed imparava molte cose: le bandiere dei diversi Stati, le tante discipline sportive, l'impossibilità di vincere sempre, i gesti facili solo in apparenza che richiedono molto allenamento e anche qualche pezzetto dell’inno italiano. 
Sto cercando di guardare con lei anche le Paralimpiadi. All’inizio le sembrava strano e chiedeva spiegazioni “Perché sono seduti?” oppure “Cosa hanno alle gambe?”
Mio nonno aveva una gamba di legno (post) e la mia professoressa delle medie, che ogni tanto richiamo in questo blog, ci aveva fatto entrare in contatto con SpazioH un’Associazione della nostra città che si occupava del sostegno ai portatori di handicap ed ai loro familiari. Non so quanto questo abbia inciso nel mio modo di pensare, sicuramente ne sono stato influenzato. Anche la sensibilità verso gli altri, che ahimé in questi nostri anni è così tanto demonizzata, va allenata.
La realtà ci permette dare concretezza ed un senso a parole, come ad esempio normalità, diversità ed impegno, che altrimenti rimarrebbero vuote. La conoscenza di altri contesti ci consente di superare eventuali pre-giudizi che, in quanto tali, molto spesso sono frutto dell’ignoranza.

Nella foto potete vedere unaragazza splendida che tutti i nostri figli dovrebbero conoscere e dalla quale noi tutti dovremmo imparare qualcosa. Specialmente in un periodo come questo nel quale i ragazzi, apparentemente nel pieno delle loro forze, appaiono così tanto vulnerabili nei confronti di quello che succede sui social network.
Una ragazza d’oro al di là dell’oro che ha vinto nel fioretto. 

martedì 16 agosto 2016

Riflessioni da (non) blogger

Ultimamente scrivo meno sul mio blog. Mi capita sempre più spesso di buttare giù dei post per poi, arrivato in fondo, cancellarli.
Mi sembra quasi che riportare frasi di mia figlia, o sue riflessioni, e nostre conversazioni di famiglia sia come violare qualcosa di sacro. Le nostre confidenze, i nostri ragionamenti insieme fanno parte di un mondo nostro che costruiamo giorno dopo giorno. 
Credo dipenda dal fatto che mia figlia sta crescendo e che il nostro rapporto si evolve, è sempre più consapevole, profondo e maturo. Fortunatamente siamo ormai lontani dallo scrivere su pappe, pannolini, giochi al parco, biciclette senza ruotine o bizze.

Per me non ha senso costruire un racconto quotidiano che faccia leva sulla curiosità di tanti altri che neanche conosco o sull’identificazione del rapporto padre/figlia ideale, che ovviamente non lo è ma lo diventa nel momento in cui si scrivono gli episodi migliori o più divertenti. E’ qualcosa che non fa per me.
Certi scambi di battute nascono in un momento. Dal mio punto di vista sarebbe assurdo a distanza di giorni cercare di ricostruire frasi e circostanze che, probabilmente, non sarebbero neanche esatte e che devono essere ricostruite. Ancora più senza senso, cercare di fissare qualcosa proprio in quei minuti. Diventerebbe tutto artefatto e irreale. Parafrasando una canzone che questa estate sta spopolando in tutte le radio, dovremmo tornare al convincimento che “ogni ricordo sia più importante viverlo che condividerlo”.   

Comunque è un problema mio e di questo spazio sul web, che chiamo blog pur non essendo un vero blogger, e che dovrà necessariamente adottare una diversa “chiave di scrittura” per il futuro. Al momento, però, non l’ho ancora trovata.  

martedì 26 luglio 2016

L’amore ha bisogno di personalizzare la realtà, anche quello tra padre e figlia.

In questi giorni di ferie nei quali posso godermi a pieno la mia famiglia, mi sono reso conto come ogni tipo di amore, compreso quello tra genitori i figli, tenda spontaneamente a cercare di personalizzare la realtà, per renderla unica per quel rapporto. 
 
Lo scopriamo da amici, quando alcuni gesti o parole richiamano esperienze esclusivamente personali e che possono essere comprese solo da chi le ha vissute direttamente ed insieme.   
Lo vediamo da fidanzati, quando scegliamo nomignoli per avere un nostro riferimento unico di coppia. Il nome vero vale per tutto il resto del mondo, quello solo per noi.
E' così anche per i genitori ed i figli.
Con mia figlia, mi capita di usare riferimenti a film che abbiamo visto insieme, l’ultimo “Dragon Trainer 2” (e poi dicono che alla bambine non piacciono i draghi o i cavalieri). Cambiare appena l’espressione del visto per richiamare animali che abbiamo visto nel nostro viaggio. Indicare una piccola cicatrice per ricordare una particolare caduta. O scoppiare a ridere alle prime parole di una frase, senza neanche bisogno di terminarla, sapendo bene dove si vuole andare a parare.
Non faccio esempi più concreti perché, ovviamente, non li capireste :)  

giovedì 14 luglio 2016

Perché contiamo fino a 3?

Lo abbiamo sentito dire centinaia di volte quando eravamo piccoli e noi ed adesso lo riproponiamo ai nostri figli quando non vogliono darci ascolto.
Conto fino a 3…
Ma perché proprio fino a 3?
Ci pensavo proprio qualche sera fa quando era il momento di andare a dormire e mia figlia non voleva scendere dal divano.
Sembra quasi una recita condivisa. Perché poi, alla fine, quando si arriva al 3, nel 99% dei casi, noi genitori otteniamo quello che vogliamo.
Forse lo sappiamo già, che poi ci daranno ascolto. E per questo minacciamo chissà quali sciagure o punizioni allo scadere del numero 3.
Anche loro lo sanno già. Ma si godono questo piccolo successo, di non averci assecondato subito e di aver ottenuto questa dilazione di ben 3 secondi.
Perché di solito, poi, il conteggio avviene molto lentamente 1… 2… 3… Quasi che noi stessi avessimo paura “E se dopo il 3 non succede niente?” Poi bisogna dar seguito alla minaccia. Temiamo l’arrivo del 4.
Sono quei 3 secondi che servono per arrivare a più miti consigli. Non uno di più né uno di meno.
Il genitore fa 3 bei respironi che lo calmano, 5 sarebbero troppi e tornerebbe il nervosismo per non essere stato ascoltato subito alla prima.
Il figlio vive i suoi 3 secondi di potere e di gloria. Probabilmente se si arrivasse fino a 10 si annoierebbe lui stesso.

mercoledì 6 luglio 2016

I genitori sanno urlare anche solo con il labiale.

Da genitori lo facciamo tutti. 
Quando in un luogo pubblico, in mezzo ad altra gente, con nostro figlio, abbastanza distante da non sentirci ma sufficientemente vicino da vederci, gli ribadiamo una cosa senza urlare ma semplicemente ripetendola a voce bassa, scandendola bene con il labiale, accompagnandola da espressioni severe degli occhi e con gesti inequivocabili delle mani.
 
Domenica scorsa ero a bordo piscina. A pochi passi da me un papà con l’asciugamano in mano ordinava perentoriamente alla figlia di uscire dall’acqua dopo l’ennesimo richiamo. In mezzo a tante gente, con un’assordante musica latinoamericana in filodiffusione, vedere quel papà "urlare" senza emettere un suono dalla bocca ma dandone evidenza con la mimica del viso e del corpo mi ha fatto veramente sorridere.
Decisamente un’interpretazione da oscar.

martedì 28 giugno 2016

“La versione di Barney”

E' innegabile quanto le scelte dei genitore ricadano sui figli, da quelle più importanti a quelle più banali. C'è un periodo entro il quale i figli non possono fare altro che subirle e muoversi nel solco tracciato dalla loro famiglia. Oltre una certa età, che varia per ognuno, per alcuni arriva prima, per altri arriva dopo, per altri ancora, ahimé (dico io), non arriva mai, i figli potranno dare l'impronta che vorranno alla loro vita. Liberi di allontanarsi, più o meno, da quanto vissuto fino a quel momento. 
 
Ho sempre pensato che sarei stato in grado di spiegare a chiunque le decisioni prese solo se effettivamente fossero state le mie. Non potrei riuscire a dare voce a scelte fatte seguendo semplicemente l'indicazione di altri. Ho sempre messo in conto l'errore o l'imprevisto. E' per questo che pur chiedendo consigli, per avere punti di vista diversi, ho sempre cercato di arrivare ad una mia scelta convinta.

Così sarò capace di chiarire a mia figlia certe scelte fatte che, necessariamente, hanno condizionato, condizionano e condizioneranno anche la sua vita. Questo non significa che sarò capito o, tanto meno, che lei le condividerà ma sono sicuro che almeno saprò di poter dare la mia versione.

martedì 21 giugno 2016

I nostri figli avranno più ricordi di noi?

Credo che uno dei modi per tenere vivi i ricordi, anche lontani, sia di averne testimonianze concrete come ad esempio delle foto. Me ne sono reso conto qualche settimana fa quando andando in biblioteca con mia figlia ho trovato un vecchio libro. La copertina e le illustrazioni interne hanno riacceso il ricordo, ormai dimenticato, di una delle mie letture delle elementari.
Ai miei tempi, ahimè è il caso di dirlo, una foto era riservata ad un evento particolare, da immortalare, come un compleanno, una vacanza al mare, la neve o una gita.
Oggi, invece, con la complicità dell'evoluzione della tecnologia, fare una foto è qualcosa che rientra nel quotidiano, che ha perso quell'aurea di sacralità.
Mia figlia, nonostante i suoi pochi anni di vita, ha già tantissime foto. Ogni tanto le riguardiamo, per rivederci, chi più piccola, lei, e chi più giovani, noi.
Chissà se mia figlia riuscirà a fissare meglio di me i ricordi di alcuni momenti della sua infanzia o, invece, le foto saranno così tante da essere troppe e, come si dice, troppe informazioni equivalgono a nessuna informazione.
Forse alla fine anche a lei rimarranno impresse solo una decina di foto. Come quella con un suo taglio di capelli particolare, magari con la frangetta tagliata a casa, o quella dove si vede la sua mamma che la tiene in braccio pochi giorni dopo il parto, quella di una giornata in vacanza in piscina con il suo babbo con cuffiette e occhialetti davvero buffi o quella con le sue migliori amiche ad una festa di compleanno truccate da principesse.

domenica 12 giugno 2016

Strani luoghi le panchine

Una parte della festa finale del ciclo della scuola dell'infanzia si è svolta nel giardino dove mia figlia ha frequentato il nido. Mi è capitato di fermarmi vicino alla panchina dalla quale, quasi cinque anni fa, la guardavo una delle mattine del suo inserimento. Ad essere sinceri, era un po' l'inserimento di entrambi.
Ricordo il bambino addormentato sull'altalena nonostante alcuni compagni gli girassero intorno toccandogli le guance. Ricordo il bambino che mi si avvicinò guardandomi con un enorme ciuccio in bocca. Ricordo che osservavo quei giochi in giardino cercando di individuare eventuali pericoli. Ricordo che lanciavo occhiate severe ai bambini grandi, mia figlia era una dei più piccoli, che sfrecciavano nella macchinine lungo il vialetto.

Pensavo al fatto che le panchine sono luoghi strani. Per gran parte del tempo senza nessuno seduto sopra. 
Un luogo dell'attesa, per chi sta aspettando qualcuno. E rimarrà seduto giusto il tempo dell'arrivo dell'altro.
Un luogo del ricordo e della malinconia, per chi non ha tanto da fare. Per gli anziani seduti per passare il tempo, chiacchierando e ricordando il tempo passato.
Ma anche un luogo per parlare del futuro. Come per i ragazzi seduti sulle panchine a fantasticare ed immaginare come vorrebbero fossero le loro vite.
Davvero strani luoghi le panchine.

lunedì 6 giugno 2016

Il “Vaffa” vola mentre il “Per favore” cammina piano.

Una delle inevitabili conseguenze di frequentare l’asilo sono le parolacce. Non so se dipenda dai bambini che hanno i fratelli più grandi o da quelli che le sentono a casa direttamente dai genitori.
E’ un dato di fatto, i cattivi esempi si propagano a vista d'occhio tra i bambini. Mi vengono in mente le tessere del domino messe una accanto all’altra, basta una piccola spintarella per far partire una reazione a catena su tutte le altre. I buoni esempi, al contrario, si muovono lentamente. Rispetto alla tesserina del domino, è come voler spostare uno dei monoliti di Stonehenge.

Mia figlia, ben sapendo già la risposta, ogni tanto ripete una delle parolacce sentite all’asilo, e mal celando un sorrisetto, mi chiede: “Ma xxxxx si può dire?”.
In altri momenti della giornata, per il gusto di ripetere quelle parole che non si dovrebbero dire, ritorna sull’argomento: “Ma tra xxxxx e yyyyyy, qual è quella più brutta?”. 

Non c’è gara, il “Vaffa” vola alla velocità della luce rispetto al pacifico e tranquillo “Per favore” che cammina senza affannarsi.    
C’è solo da sperare nel detto “Chi va piano, va sano e va lontano…”

venerdì 13 maggio 2016

Il mio gioco del “disegno incrociato”

Mi piace disegnare, mi diverto e mi rilasso. Anche quando prendo appunti, di solito scarabocchio.
Ancor di più mi fa piacere disegnare insieme a mia figlia. Alcune volte, però, lei inizia a dire “Ma tu sei più bravo! Il mio disegno è brutto, il tuo è più bello.” e, in pochi secondi, come spesso avviene con i bambini, al di là di tutte le buone intenzioni, finisce la poesia.  
Io provo a spiegarle “Ho tanti, tanti ma tanti anni più di te. Sai quanti disegni ho fatto in tutto questo tempo?”. Ma serve a ben poco.   

Così, qualche sera fa, le ho proposto di fare un gioco nuovo, che mi è venuto in mente mentre dividevamo un foglio in due, che ho chiamato “Il disegno incrociato”.
Ognuno dei due prende un foglio. Uno, di solito mia figlia, decide il soggetto, che può andare da un elefante ad una principessa, quello che non ha scelto il tema del disegno inizia indicando un particolare, ad esempio la testa.
Ciascuno disegna sul suo foglio la testa, solo quella senza ulteriori dettagli.
Poi ci scambiamo il foglio e l’altro sceglie un nuovo dettaglio, ad esempio i capelli.
Disegnato quel dettaglio ci scambiano di nuovo i fogli e andiamo avanti così fino al completamento del disegno. Terminati tutti i dettagli ci saranno due disegni creati dalla combinazione dei tratti di entrambi.
Non resta che sceglierne uno ed iniziare a colorare.

A mia figlia è piaciuto molto. Oltre ad essere un gioco divertente, secondo me è un esercizio molto utile sia per lo sviluppo della fantasia, non avete idea di quanti dettagli si possano indicare per uno stesso personaggio, e dello spirito di condivisione, perché si impara ad accettare il contributo dell’altro, qualunque sia, e si inserisce il nostro dettaglio adeguandolo a quello disegnato dal compagno di gioco.
Da fare anche tra bambini.

venerdì 29 aprile 2016

“La scuola è degli alunni” ovvero le buone intenzioni non bastano…

Qualche giorno fa ho letto nel quaderno delle comunicazioni dell’asilo che tra una decina di giorni sarà organizzato un pomeriggio con le mamme di tutti i bambini. Eh sì, maggio è il mese delle mamme.
Al di là del fatto che sarà un bel momento, di divertimento, di condivisione, di baci e di abbracci, e che le maestre hanno avuto una bella idea, non posso non chiedermi se non sia il caso che queste iniziative, ancorché bellissime, siano condivise prima con tutti, ma dico tutti, i genitori.
Siamo sicuri che tutte, ma proprie tutte le mamme, riusciranno a liberarsi proprio quel pomeriggio, in un periodo nel quale ci sono già i colloqui con le maestre, la festa di fine anno dell’asilo, i saggi finali dei corsi frequentati dai bambini?
Mia figlia è già super emozionata perché le è già stato detto di questa iniziativa. Ha già iniziato a dire: “Tu mamma ci sarai, vero?”, “Ogni bambina sarà accanto alla sua mamma…”.

La mia professoressa di italiano delle medie ci diceva sempre che “La scuola è degli alunni, non degli insegnanti e neanche dei genitori.” e così sono cresciuto con questa idea che ho fatto mia.
Sono convinto che qualsiasi iniziativa, al di là delle buone intenzioni di chi la organizza, non deve creare problemi neanche ad uno dei bambini della classe. Perché prima della soddisfazione di genitori ed insegnanti viene sempre l'interesse dei bambini.
Così, ad esempio, sono anche dell’opinione di abolire quei bellissimi (?!) lavoretti per la Festa del Papà e della Mamma se in classe c’è qualcuno che deve già convivere con il peso di aver perso uno dei due genitori. Lo stesso comportamento che teneva la mia maestra delle elementari.
E lo dico io che ho la possibilità di fruire di permessi lavorativi, che ho una figlia che ha la fortuna di vedere i suoi genitori alle feste di Natale e di fine anno ed al saggio di metà corso e a quello finale. 
Non lo dico per me, o per la mia famiglia, ma come riflessione generale.
Ripensando a quei miei due insegnanti, mi rendo conto come sia necessario per tutti sviluppare una maggiore sensibilità verso gli altri.
Mi dispiace, ma le buone intenzioni non bastano, bisogna riflettere un po’ di più sulle cose, partendo da quelle che ci appaiono più banali. La regola da seguire è semplice, almeno per me, non esiste un numero così grande di bambini il cui sorriso valga il pianto di uno solo.

giovedì 14 aprile 2016

“Le voci di dentro”


Qualche settimana fa parlando tra genitori sull’essersi trasferiti lontano dalle famiglie di origine qualcuno rifletteva sul fatto che sì, magari non li devi stare a sentire che ti dicono cosa fare o non fare, ma tu, comunque, quelle voci le hai dentro. Inconsciamente senti una vocina che ti ricorda il loro disappunto o la loro contrarietà verso quello che stai facendo. Questo perché con i tuoi genitori ci sei cresciuto e puoi sapere in anticipo quello che pensano senza bisogno di sentirlo dire. Puoi aver messo quanti chilometri vuoi tra te e loro ma questo non basta per far tacere quelle voci interiori che non seguono le regole spazio-temporali. Di solito, tra l’altro, quelle vocine, chissà poi perché, hanno una valenza negativa e, quindi, non è piacevole sentirle.

Da genitori, non ci rendiamo conto di quanto possiamo condizionare la vita dei nostri figli. Molte volte pensiamo, e più che cresceranno più lo penseremo, di non essere ascoltati abbastanza. Mentre in realtà le nostre parole, le nostre frasi, ancorché poco sentite, si depositano sul fondo e rimangono lì. E nonostante i nostri figli non facciano altro che cercare di affrancarsi da noi, dalle nostre idee, dai nostri pensieri, e in molti casi dai nostri giudizi, riaffiorano ogni tanto nella loro testa.
E’ per questo, e lo ripeto spesso nei miei post, che dovremmo, per quanto possibile, cercare di riflettere di più su quello che diciamo ai nostri figli e ai messaggi che implicitamente e inconsapevolmente sono racchiusi nelle nostre parole.

giovedì 7 aprile 2016

Con i figli tutto quello che direte sarà sicuramente usato contro di voi

Vi ricordate il momento dell’arresto del criminale nei film americani, quando il poliziotto dice “Qualsiasi cosa dirai potrà essere usata contro di te”? 
Con i figli è un po’ la stessa cosa, anzi potete avere la certezza che qualsiasi cosa direte loro sarà usata in futuro contro di voi.
Perché sembrano piccoli, ingenui, carini, tutti baci e abbracci ma è solo apparenza. Hanno una finezza di ragionamento incredibile quando si tratta di mettervi in difficoltà per sostenere una loro causa.

Ultimamente mi trovo spesso a spiegare a mia figlia che è normale non riuscire a fare bene una cosa la prima volta. Che “nessuno nasce imparato”. Che all’inizio nessuno sa fare una cosa nuova, proprio perché è nuova, e occorre provare diverse volte. Che è normale che un adulto sappia fare bene tante cose che ad un bambino sembrano difficili, perché ha avuto tanto tempo per imparare da quando è stato piccolo anche lui.
Così quando non le riesce bene una cosa nuova le dico di non scoraggiarsi perché “sta imparando”.

Questo “stare imparando”, del quale andavo fiero perché mi sembrava un bel messaggio, mi si sta però ritorcendo contro. E, come dicevo prima, mia figlia lo sta usando proprio contro di me.
Così, quando sta facendo una cosa che ormai dovrebbe saper fare perfettamente, ma non ne ha voglia, tira via e abbozza. Quando le faccio notare che non si fa in quel modo, lei mi guarda nascondendo a stento un sorrisetto e mi dice “Ma sto imparando…”.