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martedì 22 settembre 2015

Un racconto breve per parlare di #bullismo

Per trattare di un argomento che ci tocca direttamente non c’è niente di meglio che farlo con un racconto. 
Questo perché attraverso i personaggi e le situazioni della storia riusciamo meglio ad aprirci e, senza dichiararlo apertamente, a parlare di noi, delle nostre esperienze, dei nostri pensieri, delle nostre paure, delle nostre preoccupazioni e delle nostre speranze. 
Il racconto è quella maschera di cui parlava Oscar Wilde che ci permette di dire la verità.

Per questo che ho scritto questo racconto breve nella speranza che venga letto dai ragazzi e dalle ragazze e che possa favorire una discussione sul tema del bullismo
Perché è proprio del silenzio che si nutrono questi fenomeni.

Chi vuole leggerlo può trovarlo alla seguente pagina FB:
 
Buona lettura! E se vi piace, fatelo girare...

mercoledì 29 luglio 2015

Il contagio positivo tra bambini


Quando parliamo di contagio tra bambini siamo abituati a pensare immediatamente alle malattie. Ricordo ancora con terrore i biglietti che attaccavano alla porta del nido di mia figlia con gli avvisi dei casi contagiosi che si erano verificati.
Esiste anche un altro tipo di contagio, che potemmo definire sociale, quello dei comportamenti
Tutti i genitori sanno bene come, nell’educazione, i comportamenti abbiano un valore incommensurabilmente più alto rispetto a qualsiasi parola detta ma il comportamento degli altri bambini vale ancora di più
I nostri figli vedono il comportamento degli altri bambini e ne sono inevitabilmente influenzati, nel bene e nel male.
 
Ne ho toccato con mano gli effetti, fortunatamente solo quelli positivi, mentre ero in vacanza all’estero.
Eravamo in fila per acquistare i biglietti di ingresso per un’escursione in Slovenia e davanti a noi avevamo dei bambini con il loro zainetto e con la loro bottiglietta d’acqua che spuntava dalla retina. Camminavano tranquillamente senza lamentarsi ogni due secondi o chiedendo a ripetizione “Ma quando arriviamo?”. Si godevano l’esperienza che risultava affascinante anche agli occhi di un bambino visto che si trattava di un’esplorazione nel bosco tra rapide e cascatelle, pesci e tratti su ponti di legno.
Influenzata dall’esempio di questi bambini, mia figlia ha fatto tutto il percorso, si è divertita e ha concluso dicendo che d’ora in poi vorrà avere un suo zainetto per portare da sola le sue cose.
Il contagio positivo ha anche una valenza di acceleratore dell'autonomia.

C’è però una grande controindicazione, il contagio vale anche al contrario, ovvero in negativo, in particolare per le bizze. Rimane un’unica soluzione, una selezione di bambini da frequentare. Sperando che non siano proprio in nostri figli quelli che danno il cattivo esempio…

lunedì 6 luglio 2015

Come spiegare a mia figlia che il mondo intorno a noi può sembrare una scenografia di cartapesta

Qualche sera fa ho spento a tarda ora la tv dopo aver visto una delle tante trasmissione di approfondimento. Mi aveva colpito molto l’intervista a un’immigrata clandestina che, alla domanda di cosa si fosse aspettata dall’Europa, ricordava la pubblicità del cibo per gatti nel quale aveva visto un gatto mangiare in un piatto. Un’immagine emblematica per una persona che deve lottare quotidianamente per avere del cibo. Non credo che potremmo mai veramente capire certe sensazioni.  
Mi è tornato alla mente il libro “La città della gioia”, che consiglio vivamente a chi non l’ha letto, nel quale un bambino di quello che chiamavamo Terzo Mondo, abituato a dover cercare l’acqua per bere, rimane profondamente stupito nel vedere che nelle città europee esistono fontane che spruzzano acqua.

Come sempre, prima di mettermi a dormire mi sono affacciato alla cameretta di mia figlia per darle l’ultima occhiata della giornata, di solito c’è da riprendere il cuscino caduto a terra.
Forse per questo caldo soffocante arrivato all’improvviso, contro il quale sembrava essersi arreso anche il ventilatore, faticavo a prendere sonno. Mi sono messo a riflettere su quanto sarà difficile spiegare a mia figlia il mondo nel quale viviamo. A rifletterci bene, sembra che stiamo vivendo in un finto scenario. In un Luna Park, almeno per noi e non so ancora per quanto, nel quale in realtà quello che ci circonda è fatto di cartapesta. Basta guardare dietro per vedere la struttura posticcia.
Viviamo in un’economia al di sopra delle nostre possibilità, che sta in piedi solo attraverso artifici a scapito di altri. Propagandiamo agli altri il liberismo estremo quando noi, per stare in piedi, siamo pieni di blocchi e sussidi. Alziamo muri alti per difendere i nostri privilegi dall’arrivo di altri che potrebbero ridimensionarli. Non ci rendiamo conto che non riusciremo mai a fermare chi si muove avendo come unica altra alternativa la morte. 
Ci piace riempirci la bocca di slogan e non neghiamo mai a nessuno l’invio di un sms a sostegno di questa o quella raccolta fondi. Basta, poi, poter tornare alla nostra vita di sempre.
Vogliamo poter cambiare televisione, cellulare, computer e tablet alla prossima promozione senza dover pensare a come sono prodotti o a dove andranno a finire tutti i nostri scarti. Vogliamo poter dormire sonni tranquilli.
Vorrei riuscire a trovare un modo per spiegare tutto questo a mia figlia. La maniera giusta, sperando ce ne sia almeno una, che le permetta di prendere coscienza di certi argomenti, sviluppando una certa sensibilità su questi temi, senza che questo le faccia sentire sulle spalle tutto il peso del mondo. Un modo che le apra gli occhi su quello che succede anche solo a pochi chilometri di distanza da casa sua.
Perché sappia che la vita del suo compagno di asilo nato in Africa non è uguale a quella degli altri bambini che crescono e vivono lì.

martedì 9 giugno 2015

Quella paura dei genitori per la sensibilità dei figli

C’è un nuovo spauracchio che circola ultimamente tra i genitori. Non è una mia particolare percezione, ne sento proprio parlare: il timore dei genitori nei confronti della sensibilità dei figli. Se ne parla sempre in un’accezione negativa, come di un possibile problema per il futuro.
Leggiamo ai nostri figli libri che trattano la diversità e la ricerca delle proprie caratteristiche, li portiamo a vedere film che dovrebbero mostrare l’importanza di seguire la propria personalità ma poi quando chiudiamo il libro o quando usciamo dalla sala, se non già ai titoli di coda, pensiamo già di tornare alla vera realtà.     
Inutile nascondersi, dobbiamo affrontare il nostro quotidiano. Spiace dirlo, ma sono in particolare i papà a toccare questo argomento, specialmente se hanno un figlio. Ahimé, si potrebbe dirla usando le parole della famosa canzone Father & Son “E' sempre la stessa vecchia storia”. Sempre lo stesso vecchio contrasto tra come vorremmo che fossero i nostri figli e come sono, o saranno, veramente.   
La sensibilità sembra un campanello d’allarme che suona nelle orecchie dei genitori per avvertirli di una futura debolezza o incapacità di farsi rispettare. Alcune volte mi capita di sentire genitori dire, quasi come se si scusassero: “Sai, è un po’ timido”.

Credo che come adulti stiamo vivendo in modo molto forte, forse troppo, la percezione di un mondo ostile, di una società diventata ormai a beneficio del “più forte” e del “più furbo”. Un mondo nel quale, finito il tempo dell’associazionismo di vario livello e tipologia nel quale era più facile sentirsi parte di un gruppo solidale, conta ormai solo l’individualismo. Sembra che il motto dominante sia “morte tua, vita mia”.
In un momento storico in cui i posti di lavoro sono pochi e molto spesso precari, sentiamo che la corsa al proprio posto al sole debba essere senza esclusioni di colpi e, una volta raggiunto, da difendere con le unghie e con i denti.

Così, con una visione un po’ schizofrenica, vorremmo che i nostri figli fossero:
  • educati, quanto basta per non sfigurare nel nostro ruolo di genitori, ma sfrontati nelle occasioni giuste.
  • leader con i compagni ma non ribelli, così da non avere pensieri quando sono fuori casa.
  • bravi studenti a scuola ma non i primi della classe per non essere additati come “secchioni”.
  • non particolarmente paurosi ma neanche con disprezzo del pericolo.
  • con il loro carattere ma in linea con le nostre aspettative.
Ma come sono, e come saranno, i nostri figli?

mercoledì 3 giugno 2015

Oggi ti racconto una favola di quando ero bambino #unafavoladiquandoerobambino

Qualche sera fa mia figlia ha iniziato a scherzare sulla paura. Ridendo, inventava motivi più o meno strani per non scendere dal divano, come ad esempio che ci fossero degli squali che ci giravano intorno come se il pavimento fosse diventato mare.
All’ennesimo “Ho paura…” mi è scattato in testa quel “Che hai paura della gatta gnuda?” che mi diceva spesso mia nonna. Avere paura della “gatta gnuda”, cioè nuda in quanto senza la sua pelliccia, è un modo di dire usato in Toscana per identificare timori di cose inesistenti o di poco conto.

Quel ricordo ne ha richiamo immediatamente un altro, come se avesse aperto in automatico un altro cassetto della mia memoria. Mi è tornata alla mente la favola di “Buchettino” che mi raccontavano da piccolo. Uno di quei racconti non famosi, legati a un particolare territorio, e destinati a rimanere in vita solo grazie al fatto di essere tramandati oralmente tra le diverse generazioni all’interno delle famiglie.
Non so se abbia senso richiamare favole vecchie di tanti anni, e specifiche di piccole realtà, in un mondo globalizzato nel quale i nuovi racconti, specialmente quelli che diventano film di animazione, sono letti e visti dai bambini di tutto il mondo, trattando tematiche importanti e attuali come ad esempio l’integrazione tra culture diverse.
Comunque ho voluto fare una piccola ricerca e ho trovato alcuni libri dedicati alle favole toscane realizzati con lo scopo di cristallizzare i racconti della tradizione locale fino a quel momento lasciati alla sola trasmissione orale.
C’è anche la favola di “Buchettino”. Mi sono accorto, però, che quella della mia memoria presenta alcune lievi differenze rispetto a quella pubblicata. Così ho pensato di trascrivere la mia versione della favola di “Buchettino” (la trovate in fondo a questo post) divertendomi a fare qualche illustrazione, rigorosamente sottoposta al giudizio severo di mia figlia.
Ogni tanto la sera prima di addormentarsi mia figlia mi chiede di raccontargli le storie di “Buchettino”, un bambino che con l’ironia e l’astuzia riesce a battere l’orco, e della “Gatta gnuda” che si aggira nei boschi dopo aver perso la sua pelliccia.

E voi avete una favola della vostra infanzia che volete recuperare dalla memoria per raccontarla ai vostri figli?
Ho pensato che sarebbe bello condividere con loro almeno una delle fiabe di quando eravamo bambini noi. Una di quelle che molto probabilmente non troveranno tra gli albi illustrati di una libreria o di una biblioteca.
Se ne avete voglia, scrivete un post e mettete il link tra i miei commenti #unafavoladiquandoerobambino 

"Buchettino" (Favola della tradizione toscana)
C'era una volta un bambino di nome Buchettino.

martedì 26 maggio 2015

Andare all’asilo è come andare in ufficio



Ultimamente mia figlia ha perso un po' della sua voglia di andare all'asilo. Non credo ci sia un motivo particolare, probabilmente è un insieme di fattori: l'arrivo del primo caldo, la primavera, i mesi passati, un po' di routine.
Mi sto rendendo conto che noi genitori abbiamo una visione idilliaca, o comunque molto edulcorata, dell’asilo. Andare all’asilo non è come avere un biglietto gratis compreso di saltafila per Disneyland.
Nonostante tutto, l’asilo è un ambiente chiuso, a parte lo spazio del giardino che, comunque, è recintato. E’ un ambiente da condividere con altri bambini, che si vedono tutti i giorni e che, comunque, non sono tutti i nostri migliori amici. La giornata è scandita da attività precise, che se ne abbia voglia o no. Ci sono le maestre che danno indicazioni su cosa fare, e in alcuni casi anche su come farlo. Ci sono regole da seguire.
Da questa prospettiva, la tanto invocata dalle mamme e dai babbi differenza tra l’asilo dei piccoli e il lavoro dei grandi appare molto ma molto più sfumata.
In realtà, temo, se potessimo fare il classico scambio di ruoli vedremmo tante somiglianze.

lunedì 11 maggio 2015

Alcuni modi per uscire dalla cameretta di vostro figlio quando si è appena addormentato

Il sistema antiuscita a infrarossi di mia figlia
Chi ha bambini sa quanto sia difficile uscire dalla loro stanza dopo che si sono appena addormentati. 
Sembra, quasi, che abbiano un piccolo pulsante, nascosto chissà dove nel loro letto, che premono appena sentono che gli occhi si stanno per chiudere. Il congegno attiverebbe un sistema di rilevazione a infrarossi davanti alla porta della loro camera per controllare che tu non esca.  
Basta il minimo rumore come lo scrocchiare delle ginocchia, un lieve cigolio del parquet o semplicemente struciare lungo il muro per vedere aprire improvvisamente gli occhi come se fosse appena scoppiata una bomba a pochi centrimenti dal loro cuscino.
Nel giro di qualche secondo scopri se sei stato scoperto perché senti una vocina stizzita che ti richiama all’ordine: “Babbooooooo” o “Mammaaaaaaa”.
Non puoi considerare passato il pericolo neanche dopo essere uscito dalla stanza. Sembra che riescano a percepire lo spazio vuoto occupato dal tuo corpo fino a pochi minuti prima.

Credo che ogni genitore sviluppi proprie teniche di allontanamento dal letto dei propri figli nel modo più silenzioso possibile.
Mi sono divertito a individuare alcune modalità che permettono di uscire dalla cameretta minimizzando i possibili rumori: 
  • la modalità “vogatore”: chi sta seduto accanto al lettino può uscire rimanendo in quella posizione e spostandosi con l'aiuto delle gambe e delle braccia come si fa con il vogatore.  
  • la modalità “gobbo di Notre-Dame”: uscire camminando con la schiena e le gambe piegate pensando che la posizione curva sia più silenziosa di quella eretta. 
  • la modalità “mimo”: uscire dalla stanza compiendo i normali movimenti ma a rallentatore. 
  • la modalità “moonwalker”: provare a uscire camminando all’indietro guardando il bambino. Questo permette di percepire eventuali movimenti delle sue palpebre per fermarsi al primo movimenti evitando che li apra definitivamente. 
  • la modalità “passo del giaguaro”: uscire distesi a pancia in giù, al di sotto della linea del letto, riducendo al minimo le probabilità di essere intercettati. Tratta dalle tecniche di addestramento militare, in questo caso è proprio una “guerra” per il sonno. 
  • la modalità “Matrix”: superare le leggi conosciute della fisica per fare movimenti veloci senza fare alcun rumore, riuscendo anche a fermarsi a mezz'aria. Non tutti possono raggiungere questa tecnica. Leggenda vuole che, al di là dell’impegno, sviluppino certe capacità solo i genitori di gemelli numerosi (dai quattro in su).
Ah, quasi dimenticavo. Un ultimo consiglio preziosissimo: mai e poi mai sedersi sul loro lettino o, ancora peggio, sdraiarsi. Perché in quel caso, prima di usare le tecniche appena illustrate, dovrete alzarvi dal loro letto. E non potete rendervi conto di quanti rumori fareste.

martedì 28 aprile 2015

Avere il coraggio di dire ai nostri figli che certe cose costano fatica

Lo scorso 23 aprile è stata celebrata la Giornata mondiale del libro. Tra le tante iniziative c’era #ioleggoperché che aveva l’obiettivo di far avvicinare alla lettura il maggior numero di persone regalando copie di libri più o meno famosi.
Mi sono fermato a riflettere sul fatto che bisogna essere onesti nel dire che leggere è faticoso. Chi legge sa quanto sia bello farlo, per tante ragioni. Può essere meraviglioso ma questo non significa che non richieda impegno.
Lo dico perché in un mondo che ormai si muove a velocità sempre maggiori, nel quale le notizie diventano vecchie dopo pochi minuti, con applicazioni che ti fanno avere “tutto e subito” può sembrare che parlare di libri sia quasi anacronistico. Come dei moderni Don Chisciotte che lottano contro mulini a giga, ops a vento.
Dobbiamo essere sinceri con i nostri figli facendo capire loro che non tutto potrà essere semplice e veloce ma, che certi risultati richiedono tempo e fatica. Sembra che oggi "fatica" sia quasi una parolaccia, in un momento dove tutti cercano di ammiccare ai bambini e ai ragazzi cercando di proporre soluzioni gradite quasi per ottenere il maggior audience possibile. E’ importante motivare e coinvolgere ma questo non significa indicare sempre la via più facile in quanto potrebbe non consentire di ottenere l’obiettivo che si vuole raggiungere.
Così facendo gli adulti dimostrerebbero ancora una volta di abdicare al loro ruolo, per apatia o per un senso di sfiducia.  
Bisogna avere il coraggio di dire ai nostri figli che per certe cose dovranno faticare ma che vale la pena farlo. Ma dobbiamo essere noi i primi a esserne convinti.
Come non pensare alla tanto bistrattata scuola, alla necessità di stare a casa a fare i compiti anche quanto i bambini, ma in molti casi gli stessi genitori, vorrebbero uscire. Alla necessità di studiare a memoria, anche se con pochi click si ha la sensazione di conoscere qualsiasi argomento, o di leggere un libro, anche se ne è stato fatto un bellissimo film con un protagonista da Oscar.

Se non riusciremo a far capire lo scopo di quell’impegno avremo fallito il nostro ruolo educativo e, usando un gioco di parole, Facebook vincerà sempre sui book.

martedì 31 marzo 2015

Puntine da disegno e colla a presa rapida al pigiama di mia figlia


Non so se esista qualche legge della fisica ancora sconosciuta ma è statisticamente certo che alzandomi a qualsiasi ora della notte troverò mia figlia dormire nel suo lettino completamente scoperta. Nonostante sia inverno e si stia veramente bene al calduccio del piumone. 

Se esistesse una massima cinese per questo caso suonerebbe così: “Quando ti alzi nella notte, vai in camera di tua figlia per tirarle su il piumone perché lei è scoperta.”

Anche se l’ultima cosa che faccio prima di dormire è rimboccarle lenzuolo e piumone, anche dopo poco tempo riaffacciandomi nella sua cameretta la trovo scoperta. Ho provato a incastrare al massimo il piumoncino nella struttura del letto. Non c’è niente da fare. E’ una battaglia persa in partenza se uno vuole evitare di passare la notte facendo la spola continua tra le due camere dicendo addio al suo sonno e alla sua vita lavorativa e sociale durante il giorno.   
In realtà, più che bloccare il piumone o il lenzuolo, bisognerebbe proprio bloccare mia figlia che mentre dorme si gira più volte con il ginocchio piegato o con le braccia alzate tirandosi tutto dietro.    

mercoledì 25 marzo 2015

Insegnare l’educazione non basta

Insegnare l’educazione non basta. Bisogna insegnare anche a gestire la mancanza di educazione degli altri
Credo che rientri tra i tanti strumenti da mettere in quell’invisibile zainetto che i nostri figli si porteranno dietro nel corso della loro vita.

Me ne aveva parlato la scorsa estate una mamma con un figlio un po’ più grande della mia in seguito a un episodio accaduto al parco. Suo figlio si mette ordinatamente in fila in attesa del suo turno dopo un primo scivolo. Arriva un altro bambino, lo sposta con uno strattone e gli passa davanti. Suo figlio rimane un po’ sorpreso da questo comportamento, non dice niente. L’unica sua reazione e rimettersi in fila qualche posto più indietro. Tra l’altro mi faceva notare che, di solito, i genitori di questi bambini sono spersi nel parco, seduti in qualche panchina a chiacchierare con altri genitori o al cellulare, parlando e messaggiando.

Non volendo intervenire nelle questioni tra bambini, succede comunque che poi al rientro a casa tuo figlio si lamenti di un comportamento del genere, o ti racconti di episodi simili, chiedendoti cosa fare. E’ qui si arriva al punto, quali consigli dare?
Ci sono tante possibili risposte.
  • Atteggiamento depistatorio o del Bicchiere mezzo pieno: “Vabbé, dai. Comunque sullo scivolo ci sei andato.”
  • Atteggiamento remissivo o del Porgi l’altra guancia. “Certi bambini sono maleducati, non capiscono che ci sono delle regole. Cerca di avere pazienza.”
  • Atteggiamento colpevolizzando degli altri genitori o del Le colpe dei padri ricadono sui figli: “E’ colpa dei genitori che non gli insegnano come comportarsi. La prossima volta chiamami che ci penso io.”
  • Atteggiamento reattivo o del Occhio per occhio, dente per dente: “La prossima volta tu gli dai un spintone più forte e non lo fai passare avanti per nessun motivo. Vedrai che con una gamba rotta non riesce a salire sullo scivolo.”
  • Atteggiamento colpevolizzante di tuo figlio o del A’ bello addormentato nel bosco, vedi di darti una svegliata: “Ma che dormivi? Ti sei fatto passare avanti. Che non succeda più altrimenti ti riporto a casa.”
  • Atteggiamento rivoluzionario o del Al mio segnale scatenate l’inferno: “Tu e tutti gli altri bambini in fila dovevate impedirgli di passarvi avanti. Se lo spingevate via tutti insiemi, se ne sarebbe andato sicuramente.”

Al di là delle battute, chi ha bambini sa che non c’è niente di più serio che rispondere a una loro domanda. Succede che a distanza di giorni, tornino sull’argomento riportandoti quanto tu avevi detto in quell’occasione. 
Non ho una risposta preconfezionata e che vada bene per tutti e per tutte le circostanze. Dipende dalle nostre convinzioni, dal bambino, dall’età e dalla situazione. 
Sono convinto, però, che si debba dare un duplice insegnamento: di rispettare le regole e di farle/si rispettare

lunedì 16 marzo 2015

“La cravatta del mio papà”, per la Festa del Papà il nuovo racconto di BABBOnline


Chi mi segue dall’inizio sa che il “gesto di Ettore” ha accompagnato la nascita del mio blog attraverso la creazione del logo “Dad on duty.

Partendo dalla riflessione del sociologo Luigi Zoja nel suo libro ”Il gesto di Ettore”, secondo il quale le corazze dei padri-guerrieri di ieri starebbero sotto le cravatte dei padri-lavoratori di oggi, ho scritto il racconto “La cravatta del mio papà” che mi piace far uscire sul web proprio in occasione della Festa del Papà. Lo trovate qui in una strana versione youtube di un racconto sfogliato.

Buona lettura!

E se vi piace... condividetelo.

mercoledì 11 marzo 2015

Padri contro Mammi

Chissà se a marzo della Festa del Papà rimarranno solo le frittelle di riso. Perché ormai non si fa che leggere articoli sulla sparizione dei papà. 

I padri non ci sono più, per non parlare dei papà o dei babbi, già una minoranza. Lo dicono da tutte le parti: giornali, libri, blog.
Tanto che ogni tanto uno va a guardarsi allo specchio o si dà un leggero schiaffetto per essere sicuro di esserci davvero.
Qualcuno ipotizza addirittura di passare tutto al mese di maggio per la Festa della Mamma unendo mamme e “mammi”, quella nuova specie maschile che secondo gli studiosi ha ormai sostituito la figura dei papà.

Mi sembra un po’ la storia della “destra” e della “sinistra” della canzone di Gaber, così ho provato a fare un mio ironico manifesto “Padri vs Mammi” con l’elenco dei luoghi comuni collegati.

lunedì 8 dicembre 2014

Momenti che riempiono il cuore

Durante la settimana le mattine nelle quali non accompagno mia figlia all’asilo è la mamma a svegliarla e, di solito, io sono già uscito per andare a lavoro.
Il fine settimana, visto che ultimamente si sta svegliando a orari non degni di un sabato o domenica, quando si affaccia in camera nostra mi trova a letto. Anche se ho sentito l’avvicinarsi dei suoi passettini sul parquet, perché da genitori non si ha più il sonno pesante come una volta, faccio finta di dormire ma lei mi pizzica un piede attraverso la coperta.

Qualche mattina fa mentre io ero in bagno con la porta socchiusa per fare poco rumore e non svegliarla prima dell’ora stabilita, mia figlia si è alzata. E’ andata dritta in camera nostra, non facendo caso che la stanza da bagno era chiusa. Non vedendo nessuno a letto è scesa nel suo piagiamino a cercare la mamma.
Io non mi ero accorto di niente ma quando ho sentito di mia moglie dire “Buongiorno!” ho capito subito.
Così mi sono affacciato alle scale chiamando mia figlia.
Lei, sentita la mia voce, è esplosa in un “C’è babboooo!!!” con una tale di felicità e contentezza, come se fosse la più bella sorpresa, che quelle parole mi hanno veramente riempito il cuore.

lunedì 1 dicembre 2014

Camminare facilita il dialogo #camminarparlando

Ultimamente mi capita più spesso di camminare insieme a mia figlia. Crescendo si stanca meno e ormai il passeggino è stato abbandonato.
Ad esempio, qualche sera fa mentre andavamo a piedi in biblioteca ho iniziato a parlare del fatto che quella mattina aveva fatto tante storie per alzarsi dal letto. Durante il percorso ci siamo confrontati e scontrati: “La mattina sono stanca”, “La sera non vorresti mai andare a letto”, “Puoi fare il riposino all’asilo”, “Ci sono bambini che non mi fanno dormire”…
Oppure, approfittando del caldo sole che ancora ci concede questo autunno, qualche pomeriggio fa siamo usciti e abbiamo fatto una camminata veramente lunga. Tanto che io ogni tanto dicevo “Ricordati che dobbiamo tornare indietro a piedi” e lei ribattevate “Sì, lo so. Ma voglio arrivare laggiù”. Così tra un “Lo sai come si chiama questo albero?” e un “Perché i cani abbaiano?” ho colto l’occasione per buttare lì qualche domanda sull’asilo, sui suoi amichetti, su quello che le piace di più o di meno.

Non ho elementi scientifici per affermarlo ma, mi sembra, che passeggiare insieme favorisca il dialogo. Sembra che venga più facile chiacchierare, raccontare e ascoltare.
Non so se camminando ci si rilassi o l’impegno fisico, più lieve rispetto alla corsa ma comunque presente, rilasci qualche sostanza nel nostro organismo e ci renda più predisposti a parlare rispetto a essere seduti da qualche parte. 
Non so se dipenda dal fatto che camminando il nostro sguardo sia normalmente rivolto verso la strada e solo ogni tanto ci si guardi. Alcune volte viene meglio parlarsi senza guardarsi negli occhi, forse per pudore. 
Non so se esistano spiegazioni... ma mi piace molto camminar parlando.

mercoledì 26 novembre 2014

La differenza fondamentale tra un consiglio e un ordine (ovvero gli errori da non ripetere)

Nei confronti passati con mio padre ricordo che, spesso, quando capitava che gli chiedessi un consiglio lui si aspettava che poi lo seguissi.
In realtà io cercavo un confronto, volevo un punto di vista di una persona che per me aveva un valore, una certa esperienza, che poteva farmi vedere una questione da un’altra angolazione e che mi avrebbe portato a riflettere. Era chiaro per me che poi la scelta sarebbe stata mia.
Non capivo certe sue rimostranze. Un consiglio si può seguire o no, altrimenti diventa un ordine. La differenza fondamentale è data dalla libertà di scelta.
Non si tratta di mancanza di riconoscenza. Non ha senso dire “ma allora perché me lo chiedi, se poi fai quello che vuoi”.
Anche perché succede che una volta chiedi un consiglio, lo fai anche una seconda volta ma poi ti stanchi e non lo chiedi più.
Ed è un peccato, un vero peccato.

mercoledì 12 novembre 2014

Dare voce alle proprie emozioni

Seguendo consigli presenti in rete, ho letto recentemente un libro molto interessante “Intelligenza emotiva per un figlio“.
Mi ha colpito molto una frase: “Dobbiamo accettare tutte le emozioni dei nostri figli ma non tutti i loro comportamenti”. In poche parole, va bene essere arrabbiati ma non per questo si può accettare che si rompa qualsiasi cosa che capita tra le mani. Riflettendoci bene è un ragionamento che vale per tutti, bambini e adulti.
Il riconoscimento delle proprie emozioni e la loro gestione si impara crescendo. Personalmente credo molto nel valore dell’esempio e della parola, nel senso di dialogo.
Bisognerebbe ricordare sempre di non dire ai nostri figli quel “Non devi essere… o non devi avere…” che, invece, sembra venire così immediato. “Non devi essere arrabbiato”, “Non devi avere paura”, “Non devi piangere”.
Direste a qualcuno di non aver paura di fronte a un leone? Sicuramente no. Direste a qualcuno di non aver paura di fronte a un gatto? Probabilmente sì ma se quella persona avesse una fobia vorrebbe dire negare un’emozione vera.
Non c’è niente di male di per sé a essere arrabbiato o ad aver paura. Bisogna cercare di confrontarsi con il bambino per cercare di capirne le motivazioni.
Certe volte mi sorprendo nello scoprire che i nostri figli saprebbero argomentare molto bene quello che sentono, dando spiegazioni logiche, dal loro punto di vista, delle emozioni che stanno provando. Sono i primi passi di un’abitudine al dialogo tra genitori e figli che si consoliderà crescendo.

Ultimamente mia figlia sta prendendo le misure delle sue paure.
Qualche sera fa, di fronte all’apparizione di un’ombra con gli occhi rossi nel cartone animato che stava guardando, le ho chiesto se le facesse paura. Lei mi ha risposto di no e ha cercato di spiegarmi i suoi livelli di paura che aveva identificato e i relativi comportamenti da seguire.
- Se una cosa “Non mi fa paura”, si può fare o vedere.
- Se una cosa “Fa pochino paura”, si può fare o vedere.
- Se una cosa “Mi fa paura”, è meglio non farla o vederla.
Diverso tempo fa mia figlia non voleva scendere da sola al piano di sotto per prendere un gioco chiedendo che la accompagnassi. Pensando che fosse una bizza le dissi che doveva andarci da sola perché io stavo facendo un’altra cosa. Lei mi guardò dicendomi “Ma io ho paura”. Il suo sguardo mi sembrò sincero così le dissi di aspettare qualche minuto e scendemmo insieme.
Sabato mattina scorso di fronte a un pupazzo al piano di sotto mia figlia mia ha detto “Vado a prenderlo da sola. Non ho paura. Sono calma e non ho paura”.

Tra le tante emozioni, anche guardandole con gli occhi di adulto, mi sembra che sia molto importante imparare la gestione delle proprie paure.
Mi torna alla mente l’invito di De Gregori: “Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore…” (da La leva calcistica del ‘68).

mercoledì 5 novembre 2014

Storielle per andare all’asilo: il bambino che ha perso la mano nel cappotto.

Certe mattine è dura alzarsi dal letto. Per tutti. Nonostante ci si alzi per andare all’asilo dove si potrà giocare con i propri amichetti e cantare le canzoni. Ma forse quello è l’asilo visto con gli occhi di un adulto che deve andare a lavoro. Se ci andassimo noi, scopriremmo che l’asilo non è un parco giochi. Ci si diverte ma non per tutto il tempo, ci sono regole da seguire. Non tutti i bambini sono simpatici, anzi qualcuno è proprio antipatico. Addirittura c’è chi ti dà le botte, le spinte e chi ti prende il giocattolo dalle mani. Sarebbe meglio andarci verso le dieci, dopo essersi svegliati da soli. Sarebbe tutta un’altra storia. Adesso che arriva il freddo sotto il piumone si sta veramente bene.
In quelle mattine, nelle quali è dura alzarsi dal letto ma bisogna farlo, una volta alzati diventa molto probabile, quasi certo, dare il peggio di sé per fare qualsiasi cosa. Lavarsi, vestirsi e fare colazione. Sembra quasi una ritorsione. Tu mi hai svegliato ed io mi vendico

Ieri è stata una di quelle mattine. Dall’aprire gli occhi al mettersi il giacchetto per uscire.
Dopo aver consumato tutta la pazienza tra la sua camerina e il bagno, prima di uscire è arrivata l’ennesima sfida di mia figlia con il suo “no” al momento di mettersi il giacchetto. Di fuori mi aspettava una giornata di pioggia quasi torrenziale. Così ho preso tempo e le ho detto “Intanto mi metto il mio”.
Come uno dei lampi del temporale che ci aspettava fuori, d’improvviso ho iniziato a inventarle una storia.
“Lo sai che una volta un bambino che si è messo il cappotto ha perso una mano dentro?” E mentre infilavo la manica il mio cappotto le facevo vedere che la mia mano usciva.
“I genitori cercavano e cercavano ma non riuscivano a trovarla. Né dentro il taschino, né caduta per terra.”
Lei ha iniziato a sorridere.
“Vediamo se riesci a metterti il giacchetto senza perdere le tue mani perché dobbiamo andare all’asilo e ti serviranno tutte e due.”
Così ha preso il suo giacchetto e l’ha indossato, quasi divertendosi, senza fare capricci.
Abbiamo trovato anche il nome, rigorosamente in rima… Adriano, il bambino che aveva perso la mano.
Chissà forse la mia fantasia è ancora allenata dalle letture di Gianni Rodari di tanti anni fa.